Oggi gran bel romanzo. Il libro si intitola “U-boot” di Lothar Gunther Buchheim. “U-Boot” è il titolo dell’edizione italiana, pubblicato dal saggiatore. Anche se è un romanzo. Solo che ho l’impressione che non si trovi nuovo, bisogna spulciare per trovare una copia usata, oppure andare sul digitale. Ho visto che c’era stata un’edizione ancora precedente della Mondadori, ma dev’essere di parecchi anni fa.
Io l’ho letto in inglese perché così l’ho trovato. Ma la lingua originale è ovviamente il tedesco. Solo che io in tedesco capisco solo kartoffelpuffel. Non so dire della traduzione italiana, quella inglese sembra ottima e il titolo è uguale all’originale “Das Boot”, tradotto letteralmente “la barca”. Mentre “U-Boot”, che è il titolo italiano, è il nome dei sottomarini tedeschi durante la seconda guerra mondiale. E proprio su un U-Boot durante la guerra si svolge il romanzo.
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U-Boot 96
Ora, la storia è vera. Sono cose che l’autore ha vissuto durante la guerra quando si imbarcava da corrispondente di guerra nella marina tedesca. Non so sinceramente se ogni singolo episodio l’ha vissuto lui di persona, ma penso si probabile perché la cosa più bella di questo romanzo, dopo l’aspetto emotivo e il finale, sono i dettagli, quelle tante piccole cose che solo chi c’è stato può sapere. Quello che ha fatto è prendere eventi sparpagliati e li ha messi insieme all’interno di una storia.
L’U-Boot su cui è basato il romanzo e su cui lui si imbarcò è l’U-96. Ha scritto un altro romanzo, si chiama “La fortezza“, che dovrebbe essere la storia di lui che nel ’44 scappa dalla Francia per tornare in Germania. Non so com’è, non l’ho letto.

Il primo capitolo inizia con gli uomini dell’equipaggio che fanno baldoria in un locale nel mezzo della notte. Ubriacatezza estrema, eccetera. E all’inizio uno non capisce bene il perché di tutta questa faccenda. Poi ti viene in mente: il giorno dopo devono imbarcarsi sul sottomarino. Sono ragazzi giovani, si ubriacano, spaccano cose, cercano donne, perché sanno cosa li aspetta e sanno che potrebbero morire in fondo al mare.
Le statistiche alla fine della guerra degli U-Boot sono le peggiori di tutto l’esercito tedesco, ed è dir tanto. Su 40 mila uomini che si imbarcarono sugli U-Boot 30 mila non tornarono. Solo 1 su 4 si salvò. L’autore è uno di questi.
A un certo punto di trovano nello stretto di Gibilterra e viene dato loro un ordine impossibile da eseguire, un suicidio. Questa è una parte di quel capitolo.
U-Boot , il libro
È l’ora del cambio di turno. Nella camera di manovra si crea un pigia pigia perché gli uomini del secondo turno sono già pronti, sotto la torretta e adesso arrivano pure quelli del terzo. Il berlinese si meraviglia perché non ci immergiamo ancora: «Eh, il Vecchio li frega anche questa volta!».
L’ansia ha reso tutti ciarlieri. Tre o quattro marinai parlano contemporaneamente.
Zeitler si pettina.
«Fai bene a farti bello» dice il berlinese. «Fra gli inglesi ci sono un sacco di finocchi!»
Zeitler non gli bada. Per la quinta volta rastrella metodicamente la sua capigliatura inumidita, con un pettine dai denti fittissimi.
Il comandante urla: «ALLARME!».
Il sottufficiale di rotta scende, scivolando lungo il passamano della scaletta. I suoi stivali sbattono accanto a me, sulle lastre d’acciaio. Dall’alto ci giunge un forte boato, in crescendo.
Il comandante! Perché non scende?
Apro la bocca per domandarlo. Una tremenda esplosione mi butta contro la cassa nautica. I miei timpani! Qualcuno grida: «Il comandante! Il comandante!» e un altro: «Colpo d’artiglieria!».
Dall’alto, una cateratta si abbatte su di noi. Si spegne la luce. L’uccellaccio nero della paura mi attanaglia il petto.
Il sommergibile si apprua. In questo momento il comandante ci piomba addosso, come un grosso sacco di patate. Stringendo i denti dal dolore riesce a dire soltanto: «Centrato… direttamente sotto la torretta!». Nella sciabolata di luce di una lampada tascabile lo vedo piegarsi indietro, con le mani premute sulle reni.
«Il nostro cannone è partito… a momenti spazzavano via anche me!»
Da qualche parte, nel buio, nel fondo della camera di manovra, verso poppa, qualcuno strilla, come una donna isterica.
«Un bombardiere… in picchiata» ansima il comandante. Sento che affondiamo rapidamente.
Un bombardiere? Ma come, di notte? Dunque non era fuoco d’artiglieria? Un bombardiere? Non è possibile!
S’accende la luce d’emergenza.
«Aria ai doppi fondi!» urla il comandante.
«Aria a tutte le casse!» e poi, con tono pressante: «Emergere subito! Prendere i respiratori!».
Mi si blocca il respiro. Nella semioscurità della paratia di poppa, scorgo due, tre facce esterrefatte. Di colpo tutti sono perfettamente immobili.
Il comandante geme. Il suo respiro si spezza.
Siamo troppo appruati. Spazzato via il nostro ottantotto… com’è possibile?
«Un colpo vicino alla torretta!» ringhia il Vecchio. Più forte, aggiunge: «Che succede qui? Porca miseria, cosa aspettate per fare rapporto?».
Gli risponde una confusione di voci da poppa: «Via d’acqua in sala macchine!» «Via d’acqua nella camera dei motori elettrici!». Nel vocio disordinato, coperto in parte dal sibilo dell’aria compressa, distinguo quattro o cinque volte le odiose parole: «Via d’acqua».
Finalmente, la lancetta dell’indicatore di profondità si ferma, trema e ritorna lentamente indietro: risaliamo!
Il comandante è in piedi, sotto la torretta: «Forza, direttore! Su, fuori! Niente periscopio! Salgo in plancia da solo. Tenere tutto pronto!»
Trasalisco: non ho il respiratore. Barcollando, mi avvio verso poppa, mi schiaccio fra un paio di uomini che non si spostano. Frugo dietro la mia cuccetta e afferro il respiratore. Meno male… mi sento meglio.
Il sibilo dell’aria compressa non smette. Nella camera di manovra regna il caos. Per non essere fra i piedi, mi accuccio, accanto alla paratia anteriore.
«Emergiamo… il boccaporto è fuori!» avverte il direttore di macchina, con freddo tono da esercitazione. Il Vecchio è già nella torretta. Ora alza il portello e subito arrivano i suoi ordini: «Macchine diesel pari avanti tutta! Tutta a dritta! Vai per centottanta gradi!».
Usciamo? Dobbiamo nuotare? Traffico attorno alla bombola di ossigeno e con i lacci del giubbotto di salvataggio. I motori! Questo fracasso! Per quanto tempo ci andrà bene? Conto a bassa voce i secondi. Che intenzioni ha il Vecchio? Centottanta gradi significano una deviazione a sud! Puntiamo sulla costa africana.
Qualcuno urla: «Macchina di sinistra in avaria!». È possibile che quell’assordante fragore sia prodotto da un solo motore?
Una improvvisa luce accecante riempie il tondo del portello aperto. «Bengala!» latra il direttore di macchina.
Il rombo del motore mi fa impazzire. Vorrei tapparmi le orecchie per soffocare il frastuono degli scoppi nei cilindri. No, è meglio spalancare la bocca, perché fra breve ci sarà un’altra esplosione.
Mi sento contare ad alta voce. Sono interrotto da un altro grido di panico, da poppa: «Sentina della camera dei motori elettrici imbarca molta acqua!».
Non ho mai provato a nuotare con il respiratore. E chi ci vede poi, nell’acqua, con questo buio? E la corrente è fortissima, lo ha detto anche il Vecchio. Ci sparpaglierà. Se abbandoniamo il nostro guscio d’acciaio, siamo perduti. La corrente di superficie va dal Mediterraneo nell’Atlantico… chi ci trova nell’Atlantico? Ma no, è il contrario: ci porta nel Mediterraneo. Corrente di superficie… corrente del fondo. Contare… non smettere di contare! I gabbiani! Quei becchi crudeli! I naufraghi gelatinosi! I teschi lisci e bianchi coperti di mucillagine!
Quando il mio rosario di numeri è a trecentottanta il comandante urla: «ALLARME!».
Questa volta il sommergibile impiega solo pochi secondi per appruarsi.
Il comandante scende con calma: piede sinistro, piede destro, come sempre. Ma la sua voce non è quella di sempre: «Quei porci sputano bengala illuminanti da tutte le bocche!». A poco a poco ritrova il controllo: «Sembra giorno!».
Che si fa adesso? Non abbandoniamo più il sommergibile? Cosa vuol fare il Vecchio? La sua espressione non tradisce le intenzioni. Ha abbassato le palpebre, rughe profonde gli solcano la radice del naso. Sembra non percepisca i rapporti che vengono da poppa.
L’appruamento mi schiaccia contro la parete anteriore della camera di manovra. Sotto il palmo delle mani sento la vernice fredda e umida. Mi sbaglio, o stavolta scendiamo più velocemente del solito? Piombiamo giù, come un sasso!
È il pandemonio. Gli uomini birillano nella camera di manovra, chi scivola, chi cade lungo disteso. Cascando, uno mi urta con la testa nell’addome. Lo tiro su ma non vedo chi è. Nella confusione generale mi è sfuggito l’ordine: «Tutti a prua!».
La lancetta dell’indicatore di profondità va, senza fermarsi. Ma se dovevamo scendere soltanto fino a meno trenta! Ormai ci dovremmo essere! Mentre la guardo angosciato, l’indicatore sparisce dietro una parete di fumo azzurro, che è penetrato da poppa fin nella camera di manovra.
Il direttore si gira di scatto. Ha l’aria sbigottita.
La lancetta… corre troppo!
Il direttore impartisce un ordine al capo timoniere. Il vecchio trucco: reggere il sommergibile dinamicamente, mediante la pressione sui timoni di profondità. Che fanno i motori elettrici? Vanno a tutta forza? Non sento il solito ronzio d’api. Lo scalpiccio dei piedi sovrasta ogni altro rumore. E quei gemiti strazianti… chi può essere? Con questa luce fioca non si riesce a distinguere nessuno.
«Timone di profondità anteriore bloccato!» avverte il capo timoniere, senza voltarsi.
Il direttore di macchina dirige il raggio della lampada a pila sull’indicatore di profondità. Attraverso il fumo vedo che la lancetta passa rapidamente da cinquanta metri a sessanta… quando supera i settanta il Vecchio ordina: «Aria ai doppifondi!». Il duro sibilo dell’aria compressa è un vero calmante. Meno male, risaliamo!
Ma la lancetta non si ferma. Certo, è normale: gira fino a quando la tendenza di discesa si ritraduce in tendenza di salita. Ci vuole qualche tempo.
Ma adesso… adesso… adesso si deve fermare! Sbatto le palpebre, sgrano gli occhi, fisso il quadrante dell’indicatore: la lancetta non accenna a fermarsi. Continua a spostarsi: ottanta, novanta…
Metto tutta la mia volontà nello sguardo, per arrestare la sottile lamina di metallo nel cono della lampada. È inutile, la lancetta prosegue la sua corsa, supera i cento metri, va avanti.
Forse l’aria compressa non basta, per darci la necessaria spinta di galleggiamento?
«Non riusciamo a tenere il sommergibile» sussurra il direttore.
Cosa ha detto? Non lo tiene… non lo tiene? Le infiltrazioni d’acqua! Ci siamo troppo appesantiti? Siamo perduti?
A quale profondità si stritola lo scafo a pressione? Quando si spacca l’acciaio fra le ordinate?
La lancetta raggiunge i centoventi metri e prosegue inesorabile. Non oso neanche più guardarla. Mi tiro in piedi, cercando di non perdere l’equilibrio. La pressione! Mi ricordo le parole del direttore: «Più si scende, più la pressione dell’acqua riduce il volume del sommergibile, che diventa più pesante dell’acqua che sposta. Quindi veniamo sempre più compressi e allo stesso tempo aumentiamo di peso. La spinta di galleggiamento si annulla, siamo soggetti alla forza di gravità, all’accelerazione di caduta…».
«Centonovanta!» annuncia il direttore. «Duecento… duecentodieci…»
E ancora scendiamo!
Nel mio cranio risuona l’ultima cifra: duecentodieci!
Trattengo il respiro. Adesso l’acciaio si squarcerà, poi le cascate verdi ci sommergeranno.
L’intero sommergibile geme e cigola. Uno schiocco secco come un colpo di rivoltella, seguito da un lancinante stridio acuto.
Il nuovo rumore diventa sempre più stridulo. È infernale, come una sega circolare che lavori freneticamente.
Un altro colpo secco, cigolii e gemiti.
«Duecentosessanta!» grida una voce sconosciuta. Mi cedono le gambe, all’ultimo momento mi aggrappo al cavo del periscopio celeste; il sottile filo di ferro mi taglia dolorosamente il palmo.
Una morsa d’acciaio mi serra il petto: è così dunque!
La lancetta si avvicina a meno duecentosettanta. Un altro schiocco. Ho capito cos’è: rivetti che si staccano. Questa pressione è insopportabile per i rivetti e le saldature.
Le flange! Quei dannati fori nello scafo esterno!
Una voce biascica: «Padre non distogliere da me il Tuo sguardo…». “Il Verbo”? E perché tutti si accalcano nella camera di manovra? Che cavolo hanno da fare qui?
Un colpo violento mi getta a terra. Ruzzolo sopra le lastre del pavimento, una mia mano finisce in faccia a qualcuno, mi fermo addosso a qualcun altro vestito di pelle. Da prua arriva un grido da più gole, al quale fa eco un urlio in poppa. Le lastre del pavimento sobbalzano con un grande baccano. Un tintinnio prolungato di vetro, come quando si rovescia l’albero di Natale con tutte le palline. Un altro colpo fortissimo e rimbombante… e uno ancora! E ora uno stridio lacerante che mi sega la spina dorsale. Il sommergibile vibra e oscilla all’impazzata. Ho la sensazione che stiamo slittando a grande velocità, sopra un immenso acciottolato. Da fuori viene un terrificante muggito primordiale, uno stridio folle, altri due colpi assordanti… poi silenzio. Non sento altro che un lungo fischio acuto.
«Tombola!» dice il comandante. Lo sento come attraverso una porta chiusa.
Cerco di tirarmi in piedi, puntando i pesanti stivali contro il pavimento. Barcollo, scivolo, ricado in ginocchio. Soffoco un grido.
La luce! Perché nessuno accende almeno la luce di emergenza?
Sento gorgogliare acqua. Dev’essere la sentina, se fosse acqua che entra da fuori, il rumore sarebbe diverso.
Cerco di distinguere, di localizzare i vari suoni: urli, sussurri, mormorii, voci stridule dal panico, il ruggito del Vecchio: «Quando arrivano i rapporti, porca miseria? Voglio rapporti regolamentari!».
Finalmente la luce. Mezza luce. Che cosa fa qui, tutta questa gente? Socchiudo gli occhi per vedere meglio nel tenue chiarore, percepisco brandelli di parole e grida. A poppa lo schiamazzo è particolarmente concitato. Santo Iddio, che cosa sarà successo, lì?
Vedo ora il Vecchio, ora il direttore di macchina. Sento brani di rapporti, frasi intere, parole strappate dall’insieme. Qualcuno arranca verso poppa con gli occhi sgranati dal terrore. Mi urtano, a momenti ricado.
Cerco di capire: sopra era notte. Non proprio nera, ma nemmeno rischiarata dalla luna. Con così poca luce non possono averci visti da un aereo. Eppoi, quale aereo bombarda sul mare, di notte? E se era davvero un colpo di artiglieria? Da una nave? Da terra? Ma il Vecchio ha urlato: «Bombardiere!». E quel rombo crescente, prima dell’esplosione?
Il direttore salta avanti e indietro, gridando ordini.
E poi? “Tombola!” L’acciottolato… lo scafo a pressione, senza rinforzo, un guscio d’uovo sottile! Il pazzesco stridio… un tram in curva, ma certo: abbiamo cozzato in piena velocità contro il fondo roccioso. È l’unica spiegazione. A testa in giù con entrambi i motori elettrici a tutta forza! Come mai il sommergibile ha resistito? La lamiera è tesa al massimo, sotto la pressione eccessiva! E poi il rimbalzo, lo schianto, il rimbalzo…
Tre, quattro uomini sono finiti a terra. Il Vecchio è una massa scura sotto la torretta.
Fra la confusione di voci sento chiaramente il cantilenare del “Verbo”:
Magnifico sarà il giorno quando mondi di ogni peccato entreremo in Canaan…
Non riesce a proseguire. Il sottufficiale di servizio gli sferra un tremendo manrovescio sulla bocca. Dallo scricchiolio sembra che gli abbia spaccato qualche dente. Vedo il sangue colargli dalla bocca e i suoi occhi sgranati.
Il minimo movimento mi fa soffrire. Devo aver sbattuto contro qualcosa di duro, con la spalla destra e le clavicole. Muovendomi, seppure di poco, mi sembra di dover spostare quintali d’acqua.
Ho davanti agli occhi la sezione trasversale dello stretto di Gibilterra: a destra la costa africana, gli strati tettonici del fondo degradante verso il centro, e a metà fra il punto più profondo e la costa africana il nostro minuscolo guscio.
Il Vecchio, pazzo che non è altro, aveva sperato, contro ogni ragione che gli inglesi dormissero? Non aveva previsto lo sbarramento massiccio? Eccolo lì, una mano sulla scaletta, il sudicio berretto in testa.
Il primo ufficiale spalanca la bocca. La sua faccia è un’unica sbigottita domanda.
Ma dov’è il direttore di macchina? È scomparso.
Il marconista avverte: «Rilevatore acustico fuori uso!».
I due timonieri sono ai loro posti, come se ci fosse ancora qualcosa da fare, coi timoni.
Il cerchio graduato del periscopio celeste è venuto giù un’altra volta: che buffo, anche i guasti si ripetono! Chissà perché non trovano un sistema più solido…
Solo ora mi accorgo del fischio, del sibilo acuto che proviene dalla prua. Flange che non tengono? Quali sono i danni da quelle parti?
Il sommergibile è affondato come un sasso. Un vero miracolo, che il violento schianto non ci abbia spezzata la chiglia, la nostra spina dorsale! Un urto del genere, a una profondità pazzesca! Provo rispetto per la resistenza del nostro guscio: ottima qualità, quell’acciaio, sottile ma solidissimo.
Adesso comprendo: il Vecchio ha portato il sommergibile in avaria apposta in una zona a fondale basso! Ecco il perché della deviazione a sud. Quella breve accostata in direzione della costa ci ha salvati. Tanto di cappello! Ha puntato tutto su una carta, via al gran galoppo con i diesel, ogni minuto di esitazione avrebbe reso irraggiungibile il fondo sul quale adesso ci siamo adagiati.
Il sottufficiale di servizio, con un gruppo di uomini, sgobba ansimando. Il fischio stridulo cessa di colpo. Ma al suo posto sentiamo distintamente uno strano vicciviccivc.
Eliche! Non c’è dubbio, sono eliche che si avvicinano!
Il nuovo rumore impietrisce tutti, come se nel mezzo di un movimento fossero stati toccati da una bacchetta magica. Adesso ci sono addosso, i cani, adesso ci sistemano, una volta per sempre.
Ritiro la testa fra le spalle e sbircio i miei compagni immobili, dagli angoli degli occhi. Il Vecchio si mordicchia il labbro inferiore. Anche in poppa e in prua devono aver sentito quel rumore, il vocio è cessato di colpo.
Under the gun! Guardo diritto nel foro della canna puntata, Quando il dito premerà il grilletto?
Nessuno si muove, nessuno batte ciglio. Statue di sale.
Vicciviccivicciviccivic…
Perché quel maledetto cinguettio non decresce? Deve allontanarsi. È una sola elica: vicciviccivic, sempre la stessa, strimpellata sui nervi tesi allo spasimo. La nave lassù va molto adagio, altrimenti non sentiremmo anche il paleggiare. Deve avere un motore a turbina, non si sentono i tonfi dei pistoni.
Ma non può fermarsi sopra le nostre teste con l’elica che gira! Dopo tanti minuti il rumore dovrebbe farsi più debole. Cos’è questa storia?
Non vedo la faccia del Vecchio. Ma sento la sua voce roca e profonda: «Fa i giri d’onore!».
Ah, ecco: la nave sopra di noi gira in un cerchio sempre più stretto, descrive il margine dell’imbuto, alla cui punta ci troviamo noi.
Dunque sanno esattamente dove siamo. Ci hanno localizzati con la massima precisione.
Il rumore dell’elica è invariato, non aumenta né decresce. Accanto a me qualcuno digrigna i denti. Sento sospiri soffocati, gemiti.
Giri d’onore! Il Vecchio sa cosa dice: aspettano che saliamo alla superficie. Gli occorrono le prove; rottami, nafta, brandelli di carne bianca.
Il film adattato dal romanzo
Brrr. Io non sono un’appassionata di roba di guerra, per niente, ma anche in questo caso io consiglio di provare questo romanzo. C’è anche il film. La tedeschia dell’ovest ci ha fatto il film su questo libro. Ho visto il film ed è bellissimo. Molto fedele al libro, c’è solo la differenza che alcune parti le hanno saltate perché sarebbe diventato troppo lungo. Ma la sostanza c’è tutta. Diretto dal Wolfgang Petersen ed è dell’81.
Consiglio entrambi.
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