Oggi è il turno di La porta di Magda Szabó che era una scrittrice ungherese. È un libro un po’ diverso dagli altri di cui ho parlato finora, perché lo definirei un mainstream intellettuale, il tipo di libro da cui di solito starei alla larga, ma invece questo l’ho letto due volte.
Tutte le volte che il classico intellettuale viene a lodare le sublimi qualità di un’opera puoi star certo che è noiosa, scritta male e con il solo tra virgolette merito di portare avanti un certo modo di pensare, certe idee politiche a cui l’intellettuale tiene particolarmente e che tratta di argomenti impegnati e considerati, sempre dall’intellettuale, più importanti e degni di considerazione di altri, e che è scritto in maniera volutamente complicata e inutilmente elaborata per darsi un tono, per far vedere quante parole conosci. E tutti quelli a cui non piace poi il libro sono degli ignoranti che non leggono.
Questo articolo è una trascrizione dell’episodio del podcast, che trovi su tutte le principali piattaforme.
Che tipo di libro è “La porta”
Sto semplificando ovviamente, ma c’è quel tipo di persona che si sente in dovere di tenere in grande considerazione ogni libro che esce fuori da certi gruppi ed è promulgato da persone con certe idee, non importa se il libro in sé, francamente, fa cag… schifo. Sono quelli che leggono certi libri per darsi un tono, per mostrare che fanno parte della tribù di quelli con un’educazione, quelli che hanno capito più degli altri e finiscono per leggere boiate scritte male.
Quando mi sono messa a leggere “La porta” il dubbio che questi libro potesse finire in questa categoria ce l’avevo. Ora, non è il libro meglio scritto o interessante del mondo, però se uno è di umore calmo e di quel colore azzurro tendente al plumbeo, allora è piacevole e con un suo fascino.
La porta inviolabile di Emerenc
Non spoilero, ma in verità c’è poco da spoilerare. È raccontato in prima persona da questa scrittrice che non sa bene organizzarsi, ha difficoltà a essere a contatto con la realtà delle cose, ma la protagonista è Emerenc, una donnaccia antipaticissima che desideri dopo dieci pagine di mandarla a quel paes… no, no, cancella. Emerenc è la domestica, che segue regole rigide e apparentemente illogiche, che fanno andare di matto la scrittrice e il lettore ugualmente, ma che lungo la storia si capisce perché si comporta così. Perché ad esempio non lascia che nessuno, ma assolutamente nessuno, violi la sua porta, l’entrata di casa sua, fino a rifiutare ogni aiuto anche quando evidentemente ne ha bisogno. E perché dovrebbe rifiutare un atto d’amore?
Regole di un’altra realtà
Segue le sue regole inflessibili, che hanno un loro senso interno ma che non sembrano avere relazione con la realtà. Sembrano regole fatte per una realtà diversa che non esiste più, ma esisteva nel passato di Emerenc e quelle regole, dure e inflessibili, sono la struttura che lei ha costruito per sopravvivere a quella realtà. Resta adesso attaccata alle regole, e così anche a quella realtà dolorosa da cui non riesce a staccarsi. E questo crea rapporti difficili con la scrittrice e suo marito.
Se uno va oltre il fatto che vorrebbe mandarla a quel paese, la vecchiaccia, è un personaggio molto interessante. E la storia è tutta lì, dentro i personaggi. È interessante per questo, per la parte emotiva che è molto profonda ed elaborata. Il libro va letto per questo e non per la trama.
Magda Szabó descrive Emerenc
“La vecchia combatteva la Chiesa con un ardore degno del sedicesimo secolo, non solo i sacerdoti, ma anche Dio e tutti i personaggi della Bibbia, con la sola eccezione di san Giuseppe che teneva in grande considerazione in virtù della sua professione, perché il padre di Emerenc era stato un carpentiere. […] Il suo dissenso non veniva da un lungo assedio, non era l’assalto finale di una battaglia o il primo passo della pace, non era il risultato di una filosofia elaborata sulle macerie fumanti di un mondo in rovina, bensì una vendetta rozza, primordiale, scatenata da una spedizione inviata dalla Svezia. I fedeli della comunità di Emerenc avevano ricevuto dei pacchi regalo da una chiesa scandinava, ed Emerenc fino a quel momento non aveva mai svelato la propria religione. Non la si vedeva al tempio perché era sempre impegnata con il lavoro, soprattutto nei primi tempi, quando prendeva in continuazione biancheria da lavare e faceva la maggior parte del bucato di domenica. Mentre gli altri si recavano al tempio lei accendeva il fuoco sotto il piccolo calderone e sfregava i panni con il sapone. La notizia che lontani correligionari avevano spedito un regalo alla comunità, naturalmente, giunse anche alle sue orecchie: l’amica Polett accorse a portarle la notizia e quando cominciò la spartizione nel salone delle preghiere, Emerenc, che non si faceva mai vedere al tempio, apparve all’improvviso con indosso l’abito nero della festa, aspettando di essere chiamata. Tutti la conoscevano nel quartiere ma a nessuno era venuto in mente di calcolarla: le dame incaricate della distribuzione, che facevano da interpreti alla missione svedese, guardarono imbarazzate quella figura magra che aspettava con il volto impassibile. Si resero conto che, per non avendo mai frequentato il tempio, bisognava considerarla un membro della comunità; purtroppo, però, gli indumenti di lana o di tela erano già stati distribuiti, in fondo alle ceste rimanevano soltanto gli abiti da sera che una caritatevole signora svedese aveva deciso di far fuori insieme a molte altre cose inutili, senza evidentemente preoccuparsi troppo della situazione qui in Ungheria. Non volevano congedarla a mani vuote, speravano, come si scoprì in seguito, che avrebbe potuto vendere qual dono a un teatro, o a qualche casa della cultura, o magari scambiarlo con del cibo, non avevano insomma alcuna intenzione di deriderla, contrariamente a quanto percepì Emerenc quando gettò stizzita l’abito da sera ai piedi della presidentessa delle dame di carità. Da quel giorno non mise più piede nel tempio, nemmeno se le capitava, eccezionalmente, di avere un’ora libera, perché ormai non era più colpa del lavoro ma si trattava di una deliberata scelta personale. Nella sua mente le dame di carità, Dio e la Chiesa diventarono una cosa sola: non perdeva l’occasione di spargere veleno sulla casta dei credenti, me compresa, se vedeva che nei giorni di festa, esattamente mezz’ora prima che la funzione religiosa cominciasse, uscivo dal portone con il libro delle preghiere in mano.
All’epoca del nostro primo incontro non conoscevo ancora la storia degli abiti da sera ed essendo all’oscuro di tutto le chiesi innocentemente se volesse venire con me. Rispose di no: lei, cara signora, non era una di quelle donne che trotterellavano al tempio pitturate di blu e di verde solo per farsi notare, non avrebbe mai fatto una cosa del genere anche se non ci fosse stato da spazzare davanti a casa. Io la guardai stupefatta perché fin dall’inizio mi sembrò evidente che Emerenc fosse una figura biblica, una parente della Marta citata nelle Sacre Scritture: visto che dedicava la vita intera al lavoro e all’aiuto degli altri, com’era possibile che i suoi rapporti col Padreterno si fossero deteriorati fino a quel punto? Quando scoprii il vero motivo, gli abiti da sera, mi indignai, le chiesi spiegazioni sul suo comportamento, lei mi rise in faccia, ma quel gesto fu stonato, perché nell’universo di Emerenc non si addicevano né le lacrime né il sorriso.
Disse che non aveva bisogno né di preti, né di chiese, non pagava neppure l’imposta sulla religione, durante la guerra s’era resa conto di quel che Dio era capace di fare, non ce l’aveva con il falegname e con suo figlio, loro erano dei bravi lavoratori, solo che il figlio si era lasciato confondere dalle menzogne dei politici, e quando i suoi capi cominciarono a ritenerlo scomodo lo coinvolsero in una brutta storia per poterlo giustiziare. Le faceva pena soprattutto la madre perché, per lei, quello, non doveva essere stato un bel giorno, anche se, per quanto strano potesse sembrare, il Venerdì Santo fu la prima notte in cui la poveretta riuscì a dormire tranquilla perché prima s’era fatta solo tanto sangue cattivo per colpa del figlio. Mentre ascoltavo quel blasfemo sproloquio che presentava Cristo come una vittima di macchinazioni politiche, infelice eroe di un processo farsa, che finalmente scompare dalla vita della Madre Vergine tormentata dalle preoccupazioni che il Figlio le ha dato, pensai che un fulmine divino si abbattesse su Emerenc. Emerenc si accorse di avermi ferita, se ne compiacque, mi fissò con sguardo maligno quando scrollai la testa e m’avviai verso il tempio. Mi resi conto che quella strana creatura, che sosteneva di non aver mai fatto politica, in realtà, attraverso i misteriosi capillari della vita quotidiana, aveva assimilato qualcosa di ciò che era accaduto nel nostro paese negli anni dopo la guerra: per risvegliare il sentimento che un tempo evidentemente esisteva nel suo cuore, ma che ora Emerenc soffocava nell’astio, si sarebbe dovuto trovare un pastore capace. Emerenc era cristiana, eppure un pastore d’anime in grado di convincerla non esisteva, il famoso abito da sera non c’era più, ma i lustrini avevano incrostato la sua coscienza.”
Conclusione su La porta di Magda Szabó
Oh, è tutto così. Ogni tanto andrebbe girare la ruota e comprare un punto e accapo, però comunque non è una scrittura pretenziosa, ed è pieno di dettagli, di peculiarità tra i personaggi che non dubito che tante cose siano vere. E alla fine anche se non prende come altre storie, l’ho letto due volte.
Di nuovo, è un libro che ha bisogno di calma, ma non fa finta di essere quello che non è. Credo che abbia davvero una profondità intellettualmente e umanamente interessante. E poi quante volte hai letto un libro ungherese?
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