diario di un uomo scimmia

Diario di un uomo scimmia – Libro sui babbuini del Kenya

Il libro di questa settimana è “Diario di un uomo scimmia”, di Robert Sapolsky. Interessante, pieno di aneddoti e di storie sul Kenya e altre parti dell’Africa. Nulla di che strapparsi i capelli, però ottimo per andare un po’ fuori da quello che si conosce. E ci sono dei passaggi con parecchio fascino. Soprattutto perché francamente dell’Africa in generale non sappiamo niente. È un ottimo libro da spiaggia, per me. Sapolsky era fissato fin da ragazzino con i gorilla e voleva andare a studiare i famosi gorilla di montagna. Poi uno si deve adattare alla realtà e quindi non avendo all’Università la possibilità di andare a studiare i gorilla, ripiegò sui babbuini.

Ed eccolo lì, solo, a navigare a Nairobi con il suo swahili accademico che nessuno capiva, a fare provviste di sgombro in scatola, fagioli e cavoli per poi accamparsi nel bush, dove c’era nelle vicinanze solo un villaggio dei famosi masai, a osservare un branco di babbuini. Li cerbottanava per addormentarli e fargli gli esami, conservava i campioni nel ghiaccio secco e viveva per settimane e settimane da solo, finché non trovò un aiutante.

Puoi ascoltare la versione podcast di questo articolo sulle piattaforme podcast o direttamente qui:

I babbuini del Kenya

“Più o meno nello stesso periodo in cui si era unito al branco Giosuè, aveva fatto la sua comparsa anche Beniamino. Erano coetanei, ma mentre Giosuè era arrivato dal branco che viveva sulla montagna a est, Beniamino era originario di quello stanziato al confine con la Tanzania. Dato che allora stavo a malapena uscendo anch’io dal tormentoso periodo dell’insicurezza adolescenziale, facevo molta fatica a non immedesimarmi in tutto e per tutto con Beniamino e i suoi punti deboli. Aveva il pelo arruffato, un ciuffo che gli si drizzava qua e là sulla testa. Sulle spalle, al posto della criniera con cui i maschi dovrebbero intimidire i rivali, aveva buffi ammassi stopposi. Inciampava spesso e si sedeva regolarmente sulle formiche urticanti. Aveva qualche imperfezione alle mandibole: ogni volta che sbadigliava, cioè spesso, doveva sistemarsi la bocca con le mani, rimettendosi i canini dietro le labbra e le guance. Con le femmine non batteva chiodo e tutte le volte che qualcuno aveva perso un combattimento ed era di cattivo umore Beniamino gli capitava invariabilmente tra i piedi, con una scelta di tempo che non avrebbe potuto essere peggiore.”

Il babbuino Beniamino

“Un giorno stavo osservando Beniamino in quel primo anno di permanenza con il branco. Erano passati 10 minuti dall’inizio dell’osservazione, Beniamino andò a sonnecchiare fra i cespugli. Un’ora più tardi, quando il resto del branco si era ormai spostato, Beniamino si svegliò solo e del tutto ignaro di dove fossero gli altri. Proprio come me. Ci eravamo persi. Salii sul tetto della Jeep e scrutai i dintorni con il binocolo. Ci guardammo. Finalmente individuai il branco, un gruzzolo di macchioline nere a qualche collina di distanza. Guidai piano, con Beniamino che mi correva dietro, tutto bene quel che finisce bene. Da quel momento prese a sedersi accanto a me quando effettuavo le mie osservazioni, oppure sul cofano della Jeep se rimanevo in macchina. Fu allora che lo scelsi come babbuino preferito e lo battezzai di conseguenza. Tutto ciò che Beniamino fece in seguito servì a confermare la mia opinione favorevole sul suo conto. Sono passati molti anni da allora e lui è morto da un pezzo, ma io tengo ancora con me la sua foto.

La coscia di zebra

Durante il suo primo periodo al campo arrivò un fuoristrada con tre ranger seduti davanti e una zebra morta dietro. In Kenya la caccia era illegale, questo perché gli animali servivano ad attirare i turisti. Avere la caccia illegale sembrava un impegno tangibile a favore della conservazione. E quindi lui si chiede come era possibile che proprio i guardiani del parco avessero una zebra morta. Glielo chiese “ma da dove viene?” e loro gli risposero “gli abbiamo sparato noi!”. Mentre parlavano uno di ranger gli si avvicinò con un’intera zampa posteriore della zebra e gliela diede con ancora i fili d’erba attaccati allo zoccolo. In regalo. “Era malata?” non poteva credere che la gente pagata per proteggere gli animali avesse fatto bracconaggio. E il ranger arrabbiato gli disse “ma certo che non era malata! Mica ti portiamo la carne di una bestia malata”.  E quindi se ne andarono un po’ offesi.

Enigmi morali sulla coscia di zebra

La realtà era che il sovrintendente non li pagava da settimane, si teneva i soldi della loro paga e loro avevano finito la carne.  E adesso lui stava lì nel suo campo con sta zampa di zebra fra le braccia, non sapendo cosa farne. Anche se si era ripromesso di mangiare qualsiasi cosa per senso dell’avventura, anche se era vegetariano, comunque era di fronte alla questione morale se mangiare un animale che era stato cacciato di frodo. Ma ormai era morto. E se era il caso di denunciare i ranger al sovrintendente. Ma il sovrintendente si teneva la paga dei suoi uomini. E soprattutto, non aveva idea di come macellare e cucinare una zampa di zebra. Mentre era lì che pensava la zampa della zebra si era già coperta di mosche. E quindi prese a macellare la coscia con il suo coltellino svizzero facendo un gran casino e attirando le iene.

Truffare ed essere truffati in Kenya

La corruzione e le truffe sono una cosa continua, certe volte buffa altre tragica. Tipo il primo giorno che arrivò a Nairobi fu truffato tre volte nello stesso giorno. A un chiosco gli fu fatto pagare un prezzo più alto di quello giusto, gli fecero pagare una tassa che in realtà non esisteva e regalò una cifra spropositata a uno studente ugandese la cui famiglia era stata sterminata dal dittatore dell’Uganda Idi Admin e che adesso raccoglieva soldi per la rivoluzione. Anni dopo, lo studente ugandese era ancora lì a farsi donare i soldi per la rivoluzione, anche dopo che Idi Admin era stato deposto.

Fame e marijuana

Il professore che doveva mandargli i fondi si dimenticò di lui. Sapolsky lo chiamava andando a cercare un telefono pubblico e quello continuava a dimenticarsi. Non si rendeva conto che Sapolsky stava nel mezzo del nulla e aveva bisogno di quei soldi per tutto. E pian piano cominciò a non aver più neppure i soldi per mangiare. E allora cominciò a truffare e rubare pure lui. Una delle truffe era quella della marijuana. Nel labirinto di bancarelle del mercato gli stessi banchi che vendono cavoli e verdure ti propongono anche l’erba. Tu dici “certo, quanto costa?” Fai sembrare che ci stai e lo consideri un affare, però non hai i soldi dietro e andrai a prenderlo in albergo. A quel punto il negoziante ti regala un po’ della sua verdura in segno di amicizia. Così Sapolsky poteva mangiare qualcosa e poi doveva solo ricordare di evitare accuratamente quella bancarella. Dice, l’importante è iniziare dalle bancarelle in fondo al mercato.

Incrocio culturale

Ci sono vari episodi di incrocio culturale con i masai. Ad un certo punto Sapolsky scopre che nella lingua masai, i maa, ci sono due parole diverse per “leone”, una è quella vera, l’altra è fasulla. E a lui fu detta la parola fasulla perché quella vera si poteva pronunciare solo al chiuso, di notte, quando si era al sicuro. Dire il nome vero del leone significava che uno sarebbe arrivato a mangiarti.

A un certo punto Sapolsky si prende un aiutante che non aveva idea dell’esistenza del cibo in scatola. e commentò “ma guarda un po’ ‘sti bianchi che nascondono la roba da mangiare nel metallo”. Un altro aiutante conosceva l’esistenza del cibo in scatola ma non aveva mai usato un apriscatole e non aveva capito il perché il cibo veniva messo in scatola, per cui in un giorno aprì tre mesi di scorte di sgombri e prugne sciroppate.

Un’altra volta portò il suo aiutante a Nairobi, nella grande città, dove era pieno di cose che non aveva mai visto prima, tra cui il gelato. Lo scambio per una pipa che si fumava con la lingua. Ovviamente ne fu entusiasta quando lo assaggiò.

Fumo e formiche legionarie

Anche Sapolsky ebbe i suoi problemi culturali. In uno dei suoi viaggi fu ospite in un villaggio in cui gli venne data una capanna in cui dormire. Nella capanna c’era un fuoco acceso che faceva un fumo tremendo e lui non riusciva a respirare, per cui lo spense, chiedendosi perché mai loro lo tenessero acceso tutta la notte. Si svegliò al mattino ricoperto di scarafaggi, che a loro volta avevano attirato le formiche legionarie.

“Sono enormi e hanno delle tenaglie con cui ti strappano la carne a brandelli. Ti strisciano addosso in silenzio senza morderti finché non vieni sepolto dalle formiche, poi si lanciano un segnale feromonico si attaccano tutti insieme. Ti mangiano le palpebre, le narici e le parti molli. Assalgono qualsiasi cosa, uccidono gli invalidi che non riescono a scappare dagli ospedali. Una volta che hanno iniziato a scavare nella pelle con le tenaglie, stringono così forte che, quando gli strappi via, la testa si stacca dal corpo e le pinze continuano a mordere. I masai le usano come strumento chirurgico: le accostano ai lembi del taglio, la formica ci pianta dentro le tenaglie, sì da un bel giro al corpo ed ecco una bella struttura di teste di formiche legionarie.”

In un altro viaggio, questa volta in Sudan, si trovò a dover andare in bagno e non trovava il bagno. Alla stazione di polizia chiese se avevano un bagno, una toilette, una latrina, qualcosa. E questo prima gli portò del tè e poi non capiva cosa voleva. Alla fine lui si accovacciò per terra e mimò insomma l’atto di andare in bagno e il poliziotto s’illuminò. “Ma qui siamo gente libera, possiamo liberarci dove vogliamo”. E lo portò fuori in mezzo alla strada indicandogli che poteva farla lì.

Autostop sulle autocisterne

Sapolsky andò anche in giro per Uganda e Sudan facendo l’autostop. Viaggiava soprattutto grazie ai camion cisterna che trasportavano benzina. Questi camion spesso facevano centinaia e centinaia di chilometri in aree deserte, pericolose, a volte andando avanti trenta chilometri al giorno, i camionisti che stavano via mesi interi dalle loro case, oppure che avevano fatto dei loro camion le loro case. E dice che i camion avevano sostituito in ruolo e forma le carovane con i cammelli, spesso con la stessa gente che era scesa dai cammelli per salire sui camion. Una volta viaggiò nel Sudan, una regione allora come ora falciata da guerre. All’epoca il Sud Sudan non si era ancora staccato, ma le tensioni erano le stesse di oggi, con il nord arabo e il sud nero. Viaggiò su una barca lungo il Nilo fino a Juba nel calore così asfissiante che non riusciva a pensare. Da lì voleva andare nell’allora Zaire, oggi il Congo, dove vivevano gli scimpanzé, ma non trovò nessuno che andasse in quella direzione. Allora ripiegò per visitare la destinazione di riserva, la catena montuosa dell’Imatong. Un altopiano di foresta che si affaccia sul deserto sotto.

Verso l’Imatong

Per arrivarci sale su un camion con provviste in partenza.

“Mi sistemai felice nel mio spazietto sul pianale del mezzo. Eravamo belli carichi, ma mi trovai un posto abbastanza comodo su un sacco di farina di mais e tornai soddisfatto al mio libro di Thomas Mann.  Inspiegabilmente vinto dalla lettura, mi accorsi di un tratto che il camion era ormai colmo fino all’orlo, nonché fermo nel solito cortile, al crepuscolo. Niente carburante. Venne fuori che eravamo in coda davanti all’unica stazione di servizio di Juba.  Eravamo i settimi della fila e quel giorno era arrivato un vecchio furgone con un solo barile di carburante, sufficiente per tre camion. Smontammo tutti, dormimmo sulla sabbia senza allontanarci dagli automezzi e all’alba ricominciò l’attesa. Passò un’altra giornata, ormai eravamo i secondi della fila. L’indomani facemmo il pieno e partimmo. Nel frattempo la calca sul camion si era infoltita, stavamo tutti su una gamba sola, appesi ha una barra di metallo con la punta delle dita, a prenderci a gomitate nelle costole da vecchietti barcollanti, stipati fra le provviste per la città dei taglialegna dove eravamo diretti.”

In camion nel deserto

“Fummo fermati dopo cento metri, all’imbocco del ponte sul Nilo. I militari pretesero che passeggeri e sacchi fossero scaricati per l’ispezione. Vennero perforate le sacche con le baionette per controllare che dentro non ci fosse qualcuno nascosto, i soldati arabi schiaffeggiano senza motivo una donna che protestava, a me chiesero con serietà mortale il nome della città da cui stavo partendo. Superai l’esame e gli arabi cominciarono a interrogare il tizio al mio fianco. Finalmente partimmo, ognuno magicamente riposizionato dove era prima del controllo. Per le dodici ore successive arrancammo nella polvere con una temperatura di 40 gradi, percorrendo 200 chilometri. Caldo soffocante, scossoni violenti per la pseudo strada sconnessa, gente che si reggeva a malapena, nessun riparo dal sole, bambini che vomitavano ovunque. Le sbarre di metallo diventarono troppo calde perché ci si potesse attaccare per più di un secondo, ciononostante ci si aggrappava lo stesso pur di salvarsi la vita a ogni sobbalzo.”

Lo scialle, il pozzo e la lebbra

“Avevo il mio scialle da deserto sulla testa e qualche bottiglia d’acqua che tenevo attentamente d’occhio, e che prosciugò molto prima del previsto. Cominciai a soffrire di mal di testa, la sentivo pulsare ritmicamente. Notai che il mio respiro era accelerato. Durante una fermata a un pozzo ignorai una delle regole base del deserto: mai bere l’acqua di un pozzo fino a spegnere completamente la sete, perché con ogni probabilità è tutt’altro che pura e se ne bevi tanta ti farà stare male. Io nel giro di quindici minuti ero verde e avevo una nausea terribile. Passai ore a recitare mentalmente i primi due paragrafi della tesi di dottorato in programma per l’anno venturo. Provai a delineare a sommi capi un saggio sull’organizzazione sociale dei babbuini, così per sfizio, ma non riuscivo a concentrarmi. Tentai di fantasticare sulla studentessa che durante l’estate aveva lavorato nel laboratorio del mio docente e per cui avevo avuto una cotta, ma non riuscivo a concentrarmi neppure su quello. Mi rassegnai a fissare in eterno la guancia dell’indigeno accanto a me. Dopo Juba avevamo continuato a caricare gente, perlopiù kawka, uomini nudi che vivevano isolati, teste dipinte d’ocra, labbra perforate, scarificazioni che non avevo mai visto in Kenya. A molti mancava il dorso del naso. Pensai che fosse a causa di una mutilazione rituale oltremodo cruenta. Ma poi scoprii che si trattava di lebbra.”

L’altipiano del Sudan

Arrivano al villaggio dei taglialegna di Torit, dove la maggior parte delle persone scendono e poi proseguono verso l’altipiano. E qui piano piano il calore scompare e cominciano a stare bene. Arrivati a un altro villaggio sull’altipiano la sera cantano e ballano. E poi lui prosegue più avanti, verso un altro villaggio nel mezzo della giungla, dove ebbe la disavventura con le formiche, e poi verso la vetta più alta del Sudan. 

Anni dopo, quando scoppiò la guerra civile in Sudan, si chiese se gli abitanti del villaggio nella giungla ai piedi della montagna fossero stati risparmiati, isolati da quello che accadeva nel resto del Sudan.

I babbuini in pericolo

E i babbuini? Continuò a studiare il suo branco per anni. Finché un giorno qualcuno non lo chiamò per andare a vedere cosa stava accadendo in un branco vicino. Una babbuina era stata trovata gravemente malata, tossiva in continuazione, era febbricitante e aveva cancrena alle mani, segno che non arrivava ossigeno alle estremità. Questo era un branco che viveva vicino alla foresteria turistica locale, attirato dalla discarica a cielo aperto deve veniva buttata l’immondizia e gli scarti di cibo. Sapolsky catturò la babbuina per farle degli esami ma quella morì nel giro di pochi minuti. Fece allora un’autopsia e si trovò davanti a qualcosa di grave. Aveva noduli ovunque e i polmoni erano praticamente sciolti. Andò a Nairobi a parlare con dei veterinari e capirono che si trattava di tubercolosi.

Tubercolosi tra le mucche

Altri animali cominciarono a morire e lui cominciò a preoccuparsi del suo branco, che la tubercolosi non si trasmettesse da un branco all’altro e che i veterinari non decidessero di mettere in pratica il loro piano, che era di uccidere tutti i babbuini dei tre branchi della zona per evitare che la turbercolosi si trasmettesse altrove. Sapolsky li convinse ad aspettare, catturava, faceva il test, liberava gli animali non infetti e eliminava quelli infetti. Scoprirono che avevano a che fare con una tipologia di tubercolosi che non si trasmetteva per via aerea, ma con il cibo. I babbuini che si ammalavano mangiavano cibo infetto. E quella era la tipica tubercolosi che prendevano le mucche dei masai.

Il macellaio della tubercolosi

Nella foresteria il cuoco comprava dai masai mucche malate, le macellava, dava da mangiare la carne ai turisti e gettava i resti nella discarica. E da lì nasceva tutto. Disperatamente, Sapolsky cercò di fermare la cosa. Ma nessuno aveva interesse a fare indagini, a rendere nota la cosa, perché non volevano che si sapesse che era stata data carne infetta da mangiare ai turisti. Così la cosa continuò.

Il branco che viveva vicino alla discarica fu falcidiato, ma ci furono vittime anche nel branco che Sapolsky seguiva, tra cui Beniamino, il suo babbuino preferito, che gli morì tra le braccia. Anni dopo, tornato un’ultima volta dal suo branco, non c’era più nessuno dei babbuini che aveva seguito. Anziani, se n’erano andati tutti uno dopo l’altro. Ad eccezione di Giosuè, che era arrivato nel branco subito prima di Beniamino.

Il branco anni dopo

“Il branco originale esiste ancora, una piccola banda di babbuini che vanno in cerca di cibo ben stretti gli uni agli altri e manifestano un livello di aggressività vicendevole notevolmente basso. Sono troppo poco numerosi per le mie ricerche, e attualmente non conosco una buona metà di loro. Quelli dei vecchi tempi sono andati, c’è un unico superstite delle origini. In un modo o nell’altro, Giosuè ha resistito al richiamo della carne infetta, evitando di morire nell’epidemia. E nonostante il breve exploit nel corso degli anni instabili, quando tenne per poco lo scettro di maschio alfa, e poi fece da spalla a Beniamino, si è tenuto alla larga dai combattimenti e dalle ferite dei canini che logorano e accelerano la fine dei maschi. Così adesso è un animale vecchissimo, il cui figlio più anziano, Abdia, dev’essere già avviato alla vecchiaia in qualche branco lontano. Giosuè sta seduto mentre i cuccioli gli giocano intorno, saluta distrattamente qualsiasi femmina, viene lasciato in pace dagli adolescenti attaccabrighe e arranca metodicamente all’ultimo posto ogni volta che il branco si muove, facendoci temere che sia troppo esposto ai predatori. Con la vecchiaia, ha cominciato a scoreggiare con una frequenza sconcertante.”

Biscotti per Giosuè

“Quest’anno l’abbiamo cerbottanato con molta trepidazione, sentendoci in colpa. Avevamo assolutamente bisogno di alcuni dati che potevamo ottenere solo da lui. Lo abbiamo tenuto d’occhio inquieti mentre si riprendeva dall’anestesia, russando, biascicando e continuando a scorreggiare copiosamente. Quando è arrivato il momento di liberarlo dalla gabbia ha fatto una cosa straordinaria.  Quando sono salito sulla gabbia per sciogliere le corde Giosuè non si è mosso ha soltanto infilato la mano fuori per appoggiarla sul mio piede. E quando la porta si è aperta è uscito a passo lento e si è seduto lì vicino. A quel punto abbiamo fatto una cosa poco professionale, ma che importa? Ci siamo seduti accanto a Giosuè e gli abbiamo dato qualche biscotto. Biscotti inglesi Digestive. Ne abbiamo mangiati un po’ con lui, che li sgranocchiava piano, afferrando delicatamente ogni biscotto dall’estremità con le sue vecchie dita acciaccate, masticando a piccoli morsi sdentati e fradici, continuando a scorreggiare di tanto in tanto. Siamo rimasti lì seduti a scaldarci al sole, a mangiare biscotti e a guardare le giraffe e le nuvole.”

u-boot
U-Boot – Storia vera durante la seconda guerra mondiale

Oggi gran bel romanzo. Il libro si intitola “U-boot” di Lothar Gunther Buchheim. “…

libro avventura
La morte sospesa – All’estremo dell’esperienza umana

Bellissimo libro oggi, una storia vera. Nella traduzione italiana La morte sospesa di Joe Simpson. A…

schiavitù in africa
Naufragio e schivitù in Africa – Le memorie del capitano Riley

Sufferings in Africa racconta la storia del capitano James Riley e dei suoi compagni che naufragaron…

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *