“About Face” è l’autobiografia di David Hackworth, un militare dell’esercito americano. Ha iniziato a 14 anni, mentendo sulla sua età per entrare prima nella marina mercantile e l’anno dopo nelle forze armate. Ha passato i suoi primi anni di servizio in Italia, a Trieste, subito dopo la seconda guerra mondiale. Ha combattuto nella guerra di Corea e poi nel Vietnam. E prima della fine della guerra in Vietnam, ormai colonnello, invece di scegliere di continuare la carriera verso la possibilità di diventare generale, andò a parlare con la stampa di tutto ciò che non andava in Vietnam, che non era andato fin dall’inizio e che continuava a non funzionare. Le mille lezioni che non venivano imparate e che costavano vite ai ragazzi mandati in guerra. Mentre gli alti papaveri illudevano sé stessi e il paese su ciò che stava davvero succedendo in Vietnam.
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Autobiografia di David Hackworth
Lo consiglio. Molto bello. Consiglio per chi è interessato a libri di guerra, ma tanto anche a chi è interessato alla leadership. Fondamentalmente, è la storia di un guerriero. Al di là della storia militare in sé, è un libro molto umano. Si chiama “About Face” di David Hackworth. Purtroppo non credo proprio che esista una traduzione italiana. Ho trovato un altro libro di Hackworth, che ha scritto anni dopo “About Face”, in italiano. “Il prezzo dell’onore”, che però è un altro e credo che sia un romanzo. Non è difficile da leggere, però è parecchio lunghetto, tipo 1600 pagine. C’è di tutto, dal primo bagno caldo fatto dopo un mese senza lavarsi, ultimo di un intero plotone quando ormai l’acqua nella vasca era nera, al braccio ferito, che dopo l’operazione in ospedale gli dissero che non sarebbe più riuscito a estenderlo completamente e lui scese dal letto e si mise a fare una flessione e tirò il braccio e lo fece estendere a forza.
L’AK-47 sepolto
Al ricevere un nuovo fucile l’AR-15 da provare, e dopo aver detto che era pessimo ritrovarselo praticamente identico solo con il nome cambiato in M-16 come fucile di dotazione nella guerra in Vietnam. Dice che si inceppava e bisognava tenerlo sempre pulito perché funzionasse, una cosa impossibile durante un combattimento, specie in Vietnam. Verso la fine dei suoi anni in Vietnam racconta di un episodio in cui stavano costruendo una specie di forte e facendo un buco nel terreno scoprirono il cadavere di un Viet Cong sepolto qualcosa come un anno prima. Aveva ancora la sua arma in braccio, un AK-47. Hackworth disse a tutti i suoi uomini di guardare. Prese l’AK-47 dalle braccia del Viet Cong morto, dopo che era stato nella terra e nel fango per un anno, premette il grilletto e l’AK-47 sparò come nulla fosse. E lui lo aveva detto da anni e anni e tutti erano d’accordo che quello che avevano loro non andava bene, ma nulla cambiava. Un problema per altro che si ripeteva in continuazione a tutti i livelli e in tutte le questioni, e che lo portò ad abbandonare l’esercito americano poco più tardi.
Arruolarsi a 14 anni
La domanda che io mi sono sempre fatta sulle guerre e su chi va a combattere è sempre “perché”. Con quello che sta succedendo in Ucraina, ma parliamoci chiaro, che succede in continuazione. Dell’Ucraina ne parlano i media perché interessa per ragioni politiche. C’è una guerra in Etiopia in questo momento, un’altra nello Yemen che ha già fatto qualcosa come 300 mila vittime… Nella stessa Ucraina negli ultimi 8 anni era in corso un conflitto nella regione del Donbass in cui sono morti qualcosa come 14 mila civili… di questi conflitti non sappiamo molto perché nessuno ne parla in tv. Questo non li rende meno reali per le persone che li vivono. E quando uno legge che un ragazzino di 14, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale ha mentito per entrare nell’arma americana, uno cosa deve pensare? Ma perché? Di tutte le cose che uno può fare nella vita. E poi, mentre è in Italia, in uno scenario tranquillo, quando sente che inizia una guerra, una guerra vera, con gente che muore e si ammazza, decide di andarci. Si fa mandare. Vuole andare. Vuole l’azione. Va bene servire il proprio paese, va bene essere patriottici, ma queste non sembrano motivazioni sufficienti. Non per chiedere di andare, fare in modo di andare, all’età di 17 anni… Eppure Hackworth lo ha fatto.
Le ragioni per cui tornare al fronte
Le condizioni in cui è passato in quella guerra, soprattutto nel primo anno erano misere. Cioè non solo il combattimento in sé che era difficile perché gli americani erano in ritirata, ma le condizioni di vita. Parla di soldati che speravano di avere la ferita da un milione di dollari, quella che avrebbe permesso si essere rimandati a casa per sempre e che allo stesso tempo non li avrebbe mutilati e rovinati. Anche lui ne parla. Però poi quando viene ferito, fa di tutto per ritornare al fronte. Ma che, puoi restare un po’ di più in ospedale e invece praticamente scappi per tornare indietro? Di nuovo nell’orrore, di nuovo nella sofferenza e nel pericolo da cui un momento prima volevi allontanarti? Perché? Non è patriottismo, non è senso del dovere, non nel senso più stretto.
Per me è stato interessante, perché quella di Hackworth è una vita così distante dalla mia. C’è una mentalità che per me è aliena e leggendo invece ho cominciato a capire, almeno per quanto riguarda Hackworth stesso.
Perché entrare nelle forze armate, perché combattere, perché rischiare, perché tornare in Corea quando gli avevano offerto di continuare la sua carriera a casa? Perché andare in Vietnam, più volte, quando avrebbe potuto accamparsi altrove? In parole povere, perché era la sua famiglia e perché lì trovava il suo senso.
La grande avventura e la famiglia
Hackworth era orfano. Fu cresciuto dalla nonna paterna, una tipa patriottica che aveva vissuto ancora negli anni della frontiera, con ancora gli attacchi indiani. Una nonna che gli aveva raccontato di come tutti i suoi avi avevano combattuto in tutte le guerre americane e quindi creò l’aspettativa di diventare a sua volta un militare.
Come succede spesso ai ragazzini che crescono senza una figura paterna, Hackworth finì per diventare un teppista. Fu arrestato da ragazzino, rubava, aveva la sua gang. L’impressione che mi sono fatta leggendo è di un ragazzino pieno di energie, e sveglio, con un forte senso dell’avventura, ma con poca educazione, e soprattutto con nessun punto di riferimento. Nessun che potesse formare le sue energie in qualcosa di costruttivo.
Alla fine, si arruola per andare all’avventura, per il senso di appartenenza, per seguire quello che la nonna aveva fatto sentire era il suo destino. E anche perché aveva visto le fotografie delle fraulein in Germania. Se lo chiede anche lui, mentre era in Corea, perché continuava a tornare. Dice “Lì c’era la chiave per cui ero così impaziente e perché non avrei mai smesso. Certo, stavo combattendo per l’America, per tutto ciò che era “giusto” e “vero”, per la bandiera, l’inno nazionale e per la torta di mele della nonna. Ma tutto quello veniva secondo al fatto che la ragione per cui combattevo erano i miei amici. Il mio plotone. Mentre proseguivo, conclusi che quella era anche la ragione per cui la maggior parte dei soldati combattevano. Il legame incredibile che avviene quando condividi il pericolo.”
Hill 400 e il debito verso la morte
Un intero capitolo è dedicato a Hill 400, collina 400. Un episodio cruento. Alla fine vinsero loro, ma a carissimo prezzo. Compagni che gli muoiono tra le braccia e praticamente nessuno che ne esce senza rimanere ferito, lui compreso. Dice: “Non ho mai voluto morire, ma non ho mai avuto paura della morte. Immagino di aver sempre saputo che il prezzo per essere ammessi alla vita è di entrare in debito con la morte: mio padre e mia madre pagarono il debito prima che avessi un anno di età e lo Zio Roy appena 8 anni dopo, la sua una morte che si era attardata dopo il gas mostarda e altre ferite sostenute durante la prima guerra mondiale. Per me, immaginavo fosse una questione di tirare il dado. Era davvero una questione di fortuna e probabilità: tante più missioni, tanti più scontri, più alta la probabilità di venire eliminato. E se dovevi andare certo era meglio andarsene eroicamente, ma il vero eroismo, pensavo, era ritornare al fronte, quando conoscevi il copione e come il gioco veniva giocato, e quando sapevi cosa significava avere acciaio caldo attraversarti il corpo, e le tue ferite guarivano in un reparto pieno di ragazzi della tua età che potevano non riuscire più a camminare, vedere o pensare come prima.”
Decisioni difficili
In tutto il libro c’è una rivelazione sulla natura umana, che si mostra quando le persone sono sotto pressione. Per esempio, nel periodo tra la guerra in Corea e quella in Vietnam i tra le altre cose Hackworth addestrò le nuove reclute. E durante una di queste esercitazioni, Hackworth fu chiamato alla radio da un tenete colonnello, anche lui coinvolto. C’era stato un incidente. Un camion con le munizioni si era rovesciato in un campo di fango e il braccio del guidatore era rimasto incastrato sotto. Il camion aveva preso fuoco con il serio pericolo che il carico di munizioni esplodesse da un momento all’altro. “Che cosa facciamo?” chiese ad Hackworth. Dopo aver accertato che non c’erano veicoli nelle vicinanze che potessero districare il camion e spingerlo da parte, e capendo che il ragazzo incastrato sotto sarebbe stato mangiato dalle fiamme e saltato per aria, Hackworth disse a questo tenente colonnello di prendere un’ascia e tagliare il braccio al ragazzo. Avrebbe perso un arto ma non la vita.
Hackworth continuò con l’esercitazione e alla fine scoprì che per fortuna are arrivato all’ultimo istante un altro veicolo che aveva estratto il ragazzo e lo aveva portato in ospedale in un pezzo unico. Hackworth però si chiese a lungo perché il tenete colonnello aveva chiamato proprio lui. Non era abbastanza competente per prendere quella decisione da solo? E la domanda gli rimase in testa a lungo, soprattutto notando che il tenente colonnello in questione continuava a fare carriera.
Problemi problemi problemi
Lungo tutta la storia c’è un graduale risveglio verso la realtà di come le cose funzionavano dell’esercito. I problemi venivano nascosti, la gente capace di condurre i soldati sul terreno veniva messa da parte a favore di persone che avevano un’alta educazione, ma non avevano abilità di leadership, né grinta. La burocrazia era una cosa spaventosa. Tutto ciò che cercava di cambiare dall’interno veniva bloccato o aveva un effetto limitato. Appena lui se ne andava tutto tornava come prima. Per dire, le reclute che sarebbero andate in Vietnam venivano addestrate soprattutto a livello teorico, non gli venivano insegnate le basi, come rimanere vivi, e le esercitazioni che facevano sul campo venivano fatte a St. Louis, dove d’inverno c’è la neve e il terreno non c’entra niente con la giungla del Vietnam.
L’inevitabile conclusione
Per mille volte cercò di far capire ai grandi papaveri che non potevano combattere la guerriglia dei Viet Cong con la strategia da seconda guerra mondiale, ma tutti dicevano ai loro superiori che la guerra andava bene, falsificavano i risultati, così i papaveri andavano dalla stampa a dire che c’era stata una battaglia vittoriosa e decisiva, quando in realtà c’erano state gravi perdite per prendere un villaggio di nessuna importanza, che avrebbero abbandonato due settimane dopo e che i Viet Cong avrebbero rioccupato. Praticamente, lui lo aveva capito al primo anno che le cose non stavano andando bene. E alla fine quando andò dalla stampa per raccontare tutto, rinunciando a diventare generale, pensando che dall’interno non si potesse fare nulla comunque, fu ovviamente trattato come un traditore. L’esercito era la sua famiglia, ma vedeva tutti i problemi e alla fine la abbandonò.
Conclusione sull’autobiografia di David Hackworth
Riuscì per lo meno a non farsi arrestare. Emigrò prima in Spagna, poi in Australia. Gestì un ristorante e altre attività con successo. Divenne parte del movimento contro le armi atomiche in Australia. E qui il libro si ferma. Credo che sia stato pubblicato nell’89.
Hackwork è morto nel 2005 di cancro alla vescica. Dicono, causato dell’Agent Blue, un defoliante usato nella guerra in Vietnam.
Di certo era un guerriero. E non si può che ammirare la sua abilità e il suo carattere di guerriero.
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